Vittorio Unfer a,b e John E. Nestler a,c
a The Experts Group on Inositol in Basic and Clinical Research (EGOI), Roma, Italia
b Systems Biology Group Lab, Roma, Italia
c Division of Endocrinology, Diabetes and Metabolism, Department of Internal Medicine, Virginia Commonwealth University, Richmond, VA, United States

Inositolo: la prima caratterizzazione nelle piante

L’inositolo è un poliolo ciclico naturale. La sua scoperta risale a metà del 1800, quando Scherer isolò il composto dal tessuto muscolare. Scherer chiamò la sostanza “myo-inosite”, che nel linguaggio della chimica indicava un carboidrato polialcolico (composto da sei gruppi alcolici) presente nelle fibre muscolari [1]. Anni dopo, nel 1887, Maquenne estrasse il myo-insotolo dalle foglie determinando il suo peso molecolare, la sua struttura e osservando l’assenza di un’attività riducente. Successivamente, purificò la sostanza dall’urina dei cavalli, dimostrando così che il myo-inositolo era presente non solo nelle piante ma anche negli animali [2-4]. Nel 1919, Postenak isolò e caratterizzò l’acido fitico dalle foglie. Scoprì che questo composto non era altro che il myo-inositolo esafosfato, suggerendo che nelle piante, l’inositolo è soggetto a reazioni chimiche [5]. Negli anni successivi, Needham mise a punto una procedura di purificazione standardizzata dell’inositolo, permettendo così il suo isolamento specifico e la sua quantificazione [6]. Posternark, successivamente, determinò la struttura di due diversi isomeri, il myo- e scyllo-inositolo, scoprendo che l’inositolo costituisce una famiglia di isomeri [7]. Sulla base di queste evidenze, gli studi futuri fecero luce su alcune caratteristiche biologiche degli inositoli, tra cui la capacità di conversione degli isomeri e la presenza di specifici rapporti fisiologici tra questi ultimi negli organi e nei tessuti. Attualmente, molte funzioni degli inositoli sono ancora oggetto di studio, infatti la fisiologia degli inositoli rappresenta ancora oggi un argomento di ricerca molto interessante.

L’inositolo negli animali: dal metabolismo al suo ruolo cruciale nei processi di segnalazione

Needham, dopo aver ottimizzato il metodo di purificazione dell’inositolo, focalizzò la sua ricerca sul ruolo fisiologico dell’inositolo negli animali. Infatti, attraverso una serie di esperimenti raffinati, egli dimostrò che gli animali sintetizzavano inositolo, indipendentemente dall’assunzione attraverso la dieta. Needham, come primo step, determinò il contenuto di inositolo nelle uova di gallina, sia in quelle non covate sia in quelle che avevano completato lo sviluppo. Osservò che la concentrazione di inositolo aumentava di dieci volte durante il periodo che andava dalla pre-incubazione fino alla schiusa delle uova, concludendo che esisteva una fonte endogena di inositolo. Questa fonte potrebbe consistere nel rilascio di inositoli fosfati dalla membrana o dalla biosintesi de novo endogena oppure, potenzialmente, potrebbe essere rappresentata da entrambi i processi. Per mettere luce su questo meccanicismo, Needham disegnò un esperimento in vivo sui ratti. Gli animali vennero nutriti per otto mesi con una dieta ricca di sali e priva di ciclosi (molecole simili agli inositoli), al fine di aumentare l’escrezione urinaria e deprivarli di ciclosi esogeni. Alla fine dell’esperimento, Needham documentò l’escrezione degli inositoli nelle urine, concludendo che gli animali erano in grado di sintetizzarli de novo, anche in regime di deprivazione esogena [8].

Alla luce di questi dati, due domande importanti rimasero ancora aperte in quegli anni, portando gli scienziati a supporre ipotesi e speculazioni. Quali sono i ruoli fisiologici dell’inositolo? Dove è localizzato l’inositolo negli animali?
Venti anni dopo, Folch stava studiando il ruolo dei lipidi cerebrali e in particolare, la cefalina, un fosfolipide presente nella membrana dei neuroni del cervello delle vacche. Durante i suoi esperimenti, scoprì per caso che i myo-inositolo fosfati erano costituenti della membrana, suggerendo per la prima volta il loro ruolo cruciale nelle membrane plasmatiche e in particolare di quelle del cervello [9]. Pochi anni dopo, i coniugi Hokins scoprirono che l’inositolo non era solo un componente strutturale delle membrane ma anche una molecola attiva nei processi di trasduzione del segnale. Infatti, scoprirono che i neurotrasmettitori come l’acetilcolina, inducevano un aumento citosolico di inositoli fosfati nei neuroni post-sinaptici. Questa scoperta portò gli Hokins a ipotizzare che l’inositolo veniva rilasciato dalle membrane e successivamente partecipava nei processi di segnalazione intracellulare. Definirono così questa sequenza di eventi “l’effetto dell’inositolo fosfato” (effetto PI) [10]. Nel decennio seguente, la ricerca di Ballou e Dawson aggiunse nuovi elementi alle scoperte di Folch e degli Hokins. In particolare, Dawson fu il primo a identificare e purificare il fosfolipide fosfatidilinositolo 4,5 bifosfato, che chiamò “trifosfoinositide” [11], mentre Ballou scoprì che nello stesso tessuto esistevano diverse forme di myo-inositolo fosfato (mono-, di- e trifosfato) [12].

Anni dopo, durante il periodo di fervore che ha seguito la scoperta dell’adenosina 3’-5’ monofosfato ciclico (AMP ciclico) e del meccanismo dei secondi messaggeri, Berridge stava lavorando sulla mobilitazione del calcio nelle ghiandole salivari dei mosconi. Lui come fisiologo, incrociò la biologia molecolare e la biochimica, infatti all’epoca, studiava il meccanismo che induceva la secrezione di saliva attraverso l’attivazione di canali ionici di membrana [13]. Cavalcando l’onda dell’entusiasmo per la scoperta del AMP ciclico, testò se questa molecola così popolare fosse responsabile delle azioni che osservava durante l’attivazione di canali ionici di membrana. In particolare, se da una parte si sentì entusiasta quando scoprì che l’AMP ciclico fosse responsabile dell’ingresso di ioni potassio, dall’altra rimase sorpreso quando non osservò effetti sulla secrezione degli ioni cloro, che Berridge sapeva essere regolata [14, 15]. In quegli anni, le scoperte sul AMP ciclico attirarono l’attenzione degli scienziati, affascinati dal nuovo concetto dei secondi messaggeri che sfortunatamente erano esclusivamente rappresentati dall’AMP ciclico. Infatti, la maggior parte degli scienziati credeva che l’AMP ciclico fosse l’unico secondo messaggero, quasi ignorando quei dati che indicavano la possibile esistenza di altre molecole con lo stesso effetto. Berridge però, perseguendo fiduciosamente i suoi obiettivi, trovò in letteratura delle evidenze che suggerivano il Ca2+ come possibile agente responsabile della secrezione della saliva. Successivamente, provò a verificare se il Ca2+ fosse responsabile dell’apertura dei canali ionici del cloro. Eseguendo i suoi esperimenti, in assenza o presenza del Ca2+, come si aspettava, scoprì che era il Ca2+ piuttosto che l’AMP ciclico, il vero effettore dell’ingresso degli ioni cloro [16]. A questo punto, la ricerca di Berridge si incrociò con il lavoro di Michell, che sosteneva fortemente che l’effetto PI scoperto dagli Hokins, era ulteriormente propagato dal Ca2+ [17]. Così Berridge iniziò a studiare gli inositoli nelle membrane, fino a che dimostrò che un aumento del rilascio degli inositoli dalle membrane portava a un aumento di calcio all’interno della ghiandola salivare. Questa fu la prima dimostrazione che un composto diverso dall’AMP ciclico potesse regolare il processo di comunicazione extra-intracellulare [18]. A questo punto Berridge dovette solo identificare le specie di inositolo coinvolte nella mobilitazione del Ca2+. Fu abbastanza fortunato in quanto lavorava molto vicino al laboratorio di Dawson, che a quel tempo era uno dei due laboratori nel mondo che poteva fornire lo standard di inositolo fosfato.

Contemporaneamente alla ricerca di Berridge, Irvine, che lavorava nel laboratorio di Dawson, stava provando a identificare il vero effettore dell’effetto del PI. Irvine era un biochimico con una grande esperienza sugli inositidi, infatti, il suo principale argomento di ricerca riguardava la formazione dei derivati dell’inositolo, con un focus specifico sulla cinetica dei meccanismi. Mentre Berridge lavorava sulle ghiandole di moscone, Irvine eseguiva gli esperimenti sulle piastrine, ottenendo però pochi risultati in quanto le piastrine esibivano uno scarso assorbimento di inositolo. Irvine, come Berridge durante la sua ricerca, fu ispirato da Michelle, che credeva fermamente che l’effettore reale dell’effetto del PI era il fosfatidilinositolo 4,5 bifosfato, la testa polare dei lipidi di membrana composta da una molecola di inositolo. Durante la loro collaborazione, Berridge e Irvine, ebbero difficoltà a trovare il modello cellulare ottimale per effettuare i loro esperimenti. Infatti, lo scarso assorbimento di inositolo da parte delle piastrine e la difficoltà nell’analizzare le cellule che compongono le ghiandole salivari lasciarono i due scienziati con poche idee su come procedere. Fortunatamente, Berridge partecipò a una riunione ad Amsterdam dove venne invitato come relatore. Schülz, che intervenne subito dopo di lui, parlò delle cellule pancreatiche permeabilizzate, che Berridge ritenne potessero essere il modello ottimale per i suoi esperimenti e quelli di Irvine [19, 20]. Inizialmente lavorare sulle cellule pancreatiche fu difficile, ma l’intervento di Irvine, che preparò standard di alta qualità, portò alla dimostrazione definitiva che loro stavano da tempo cercando. Infatti, osservarono che il fosfatidilinositolo 4,5 bifosfato veniva scisso producendo una forma idrosolubile, inositolo 1,4,5 trifosfato, che mobilitava il calcio dal reticolo endoplasmatico attivando gli effettori a valle [21]. Dimostrarono questo meccanismo nelle cellule pancreatiche, ma la grandezza delle loro scoperte indusse velocemente a una ricerca su possibili ruoli similari dell’inositolo in altri sistemi cellulari. La collaborazione tra accademici dalla mente brillante chiarì subito il ruolo dell’inositolo nella trasduzione del segnale. Attraverso la loro conoscenza della biochimica e della biologia molecolare, identificarono l’inositolo trifosfato, che oggi è considerato uno dei più importanti secondi messaggeri [22]. Oggi, data la vasta disponibilità di dati sull’inositolo, si dà per scontato la scoperta che definisce il suo ruolo cruciale nella fisiologia, ma probabilmente è la più importante in questo campo.

Dopo la scoperta del ruolo dell’inositolo nella trasduzione del segnale, iniziarono a emergere ulteriori evidenze su questo argomento. Mentre Irvine e Berridge stavano chiarendo il ruolo degli inositoli fosfati, altri scienziati stavano lavorando su altri meccanismi di segnalazione, in particolare quello dell’insulina. Il lavoro di Larner già si focalizzava sui mediatori del segnale dell’insulina e infatti il suo gruppo aveva già isolato dei composti che si pensava essere coinvolti in questo tipo di segnalazione [23]. Nonostante questo, fu Saltiel che per la prima volta evidenziò che i mediatori dell’insulina erano “derivati di un inositolo glicolipide” [24, 25]. In aggiunta a questa scoperta, questi scienziati iniziarono a notare delle differenze tra i mediatori dell’insulina. In particolare, il gruppo di Larner isolò due mediatori del segnale dell’insulina, caratterizzati da attività diverse. Il primo mediatore attivava la piruvato deidrogenasi fosfatasi, spiegando alcune delle azioni intracellulari dell’insulina, mentre il secondo mediatore aveva un ruolo cruciale nell’inibizione della protein chinasi A. Successivamente, il gruppo di Larner caratterizzò questi due mediatori, rivelando che erano infatti inositoli fosfoglicani [26]. Il primo, attivando la piruvato deidrogenasi fosfatasi, era composto da galattosamina e D-chiro-inositolo [27]. Il secondo, inibitore della proteina chinasi A, era composto da myo-inositolo, glucosamina, galattosio ed etanolamina [28]. Così per la prima volta, venne riportato che gli stereoisomeri degli inositoli avevano differenti attività, un’evidenza che aprirà ulteriormente a nuovi dibattiti. Inoltre, attraverso un esperimento raffinato con inositolo radiomarcato, Larner scoprì un diverso tasso di conversione degli stereoisomeri tessuto-specifica [29]. In particolare, Larner insieme ai suoi collaboratori, identificò una carenza di D-chiro-inositolo come una caratteristica che accumunava pazienti diabetici e osservò che l’insulina induceva la biosintesi di fosfolipidi contenti D-chiro-inositolo [30]. Contemporaneamente, ulteriori studi di Larner in scimmie rhesus diabetiche e in ratti diabetici, suggerirono un ruolo potenziale del D-chiro-inositolo come insulino-mimetico/insulino-sensibilizzante [31].

In quegli anni, Nestler stava studiando gli effetti dell’insulina in un contesto endocrinologico e ginecologico. In particolare, studiava le lipoproteine e gli ormoni, focalizzandosi sulla loro relazione con l’insulina. Una delle più importanti intuizioni di Nestler ha riguardato la correlazione tra il fattore di crescita insulino-simile 1 (IGF-1) e l’iperandrogenismo femminile, che ha trovato studiando la regolazione della steroidogenesi ovarica [32]. Successivamente osservò un effetto simile dato dall’azione dell’insulina, trovando quindi una diretta relazione tra iperinsulinemia e iperandrogenismo [33]. Egli, inoltre, evidenziò una diminuzione della produzione ovarica di estrogeni in seguito al trattamento con insulina [34]. Collaborando, Lerner e Nestler, identificarono gli inositoli glicani come mediatori del segnale dell’insulina e molecole correlate che impattavano la steroidogenesi [35]. Nestler e il suo gruppo dimostrarono poi indubbiamente che i fosfoglicani contenenti D-chiro-inositolo trasmettevano il segnale in seguito all’azione dell’insulina, portando all’accumulo di testosterone nelle ovaie [36].

Mentre Nestler stava investigando il ruolo del D-chiro-inositolo nella steroidogenesi, Chiu iniziava i suoi studi sul myo-inositolo. Basandosi sulla relazione tra carenza di myo-inositolo ed embriopatie diabetiche, Chiu decise di indagare sulla possibilità che il myo-inositolo potesse impattare lo sviluppo embrionale. Lavorando sulla fecondazione in vitro (IVF), usò come fonte di myo-inositolo, i sieri di donne che si sottoponevano a IVF. Notò che i sieri provenienti da pazienti che hanno ottenuto una gravidanza dopo fecondazione in vitro, quando venivano aggiunti ai mezzi di cultura, supportavano un migliore sviluppo dell’embrione murino in vitro, in quanto contenevano livelli più alti di myo-inositolo. Tuttavia, i campioni di siero provenienti da donne che avevano abortito, sebbene comunque supportassero lo sviluppo dell’embrione, contenevano concentrazioni inferiori di myo-inositolo. Inoltre, osservò che in alcuni casi, lo sviluppo dell’embrione migliorava quando veniva aggiunto il myo-inositolo [37]. Queste evidenze spinsero a capire se l’effetto del myo-inositolo fosse dovuto alla sua presenza nel siero o nel fluido follicolare. Chiu fece la sua più importante scoperta, osservando che era il contenuto di myo-inositolo nel fluido follicolare a influire sulla qualità dell’ovocita. Infatti, il contenuto del myo-inositolo è stato direttamente correlato anche alla quantità di estradiolo nel fluido follicolare. Pertanto, propose e poi confermò, che la concentrazione di myo-inositolo nel fluido follicolare avrebbe dovuto essere considerata un biomarcatore della buona qualità dell’ovocita [37].

L’inositolo nella pratica clinica: le prime scoperte e gli stereoisomeri

Le crescenti evidenze sul ruolo fisiologico degli inositoli hanno fornito un razionale per studiare il potenziale di queste molecole negli studi clinici. Infatti, i primi studi clinici che hanno valutato il trattamento con myo-inositolo risalgono agli anni 50, guidati da Dotti e Felch. Essi notarono un effetto positivo dell’inositolo sui livelli di colesterolo in pazienti infartuati con ipercolesterolemia e in pazienti diabetici, tuttavia tale evidenza portò all’apertura di nuovi scenari [38, 39]. Infatti, Nestler decise di testare il D-chiro-inositolo come trattamento insulino-sensibilizzante per indurre l’ovulazione in donne con sindrome dell’ovaio policistico (PCOS), riducendo l’eccessivo stimolo dell’insulina sull’ovaio. Come previsto, dimostrò che il D-chiro-inositolo induceva l’ovulazione nelle pazienti obese, insulino-resistenti con PCOS riducendo il sovraccarico dello stimolo insulinico [40]. Anni dopo, Nestler e i suoi colleghi confermarono questi risultati promettenti sull’induzione dell’ovulazione anche nelle pazienti con una lieve insulino-resistenza e affette da PCOS [41]. La ricerca clinica sull’inositolo diede grandi risultati negli anni successivi fino al 2008, quando il gruppo guidato da Nestler notò una minore o assenza di efficacia del trattamento di donne con PCOS, non insulino-resistenti in seguito alla somministrazione di alti dosaggi di D-chiro-inositolo, diversamente da quelle precedentemente investigate [42]. In questo studio, anche nel trattamento dell’iperandrogenismo, il D-chiro-inositolo ebbe effetti nulli o dannosi.
Affascinato dalla ricerca di Nestler e il suo gruppo, Unfer, nei primi anni 2000 iniziò a interessarsi ai trattamenti con inositolo. Data la vastità di informazioni disponibili sul D-chiro-inositolo, decise di focalizzarsi su un composto simile ma con attività differenti. Ispirato dalle scoperte di Chiu, Unfer si concentrò sull’isomero più abbondante presente in natura, il myo-inositolo. Collaborando con Baillargeon, un collega di Nestler, Unfer testò per la prima volta l’azione positiva del myo-inositolo durante le procedure di IVF. In particolare, loro notarono che l’integrazione orale di myo-inositolo nelle donne che si sottoponevano a IVF, riduceva le unità di FSH che dovevano essere somministrate per la stimolazione ovarica [43]. Questa è stata una scoperta cruciale nel campo della IVF, in quanto il myo-inositolo ha ridotto il rischio legato all’iperstimolazione ovarica che rappresenta un effetto collaterale pesante del trattamento con FSH. Unfer e il suo gruppo di lavoro osservarono un aumento del numero di ovociti recuperabili, definendo così il myo-inositolo come una molecola chiave per l’ottenimento di risultati migliori nelle procedure di IVF.
Unfer e Baillargeon collaborarono ulteriormente su un altro progetto di ricerca. Infatti, credevano che non solo il D-chiro-inositolo ma anche il myo-inositolo potesse indurre l’ovulazione in pazienti con PCOS, caratterizzate da cicli anovulatori. Per questo, donne con PCOS vennero trattate con myo-inositolo, aspettandosi di indurre l’ovulazione come riportò Nestler nel suo studio. Infatti, ottennero un risultato comparabile a quello di Nestler in termini di tasso di ovulazione, sottolineando però un altro effetto positivo del trattamento con myo-inositolo delle donne con PCOS. In particolare, Unfer notò un ottimo recupero dall’irsutismo, una caratteristica tipica dell’iperandrogenismo che caratterizza le donne con PCOS [44].
Da questo momento in poi, la ricerca sugli inositoli ha iniziato ad acquisire importanza, anche spaziando dalle classiche aree di interesse, quali metabolismo e ginecologia. Questo libro vuole raccogliere tutte le più importanti scoperte ottenute negli ultimi anni dagli studi sugli inositoli e la loro efficacia in diversi ambiti clinici.

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